Dopo l’11 settembre gli Stati Unti hanno dichiarato guerra al terrorismo islamico scatenando guerre che hanno determinato un disastro umanitario.
La reazione militare degli Sati Uniti all’attacco dell’11 settembre ha scatenato un flusso migratorio dai numeri impressionanti e allo stesso tempo preoccupanti, che ha coinvolto circa 38 milioni di persone, tante quante la popolazione del Canda.
A dirlo è uno studio condotto dal Watson Institute, centro di ricerca interdisciplinare presso la Brown University di Providence, negli Usa. Uno studio che mette in evidenza ancora una volta quanto l’attacco alle Torri Gemelle, avvenuto l’11 settembre del 2001, abbia cambiato in peggio il corso della storia.
L’attacco kamikaze al cuore di New York, ideato e condotto dall’organizzazione terroristica Al Qaida, e la reazione degli Stati Uniti hanno determinato una reazione a catena che ha destabilizzato il Medio Oriente e alcune zone dell’Africa, con effetti nefasti che purtroppo durano ancora oggi.
Gli effetti dell’11 settembre: guerre, instabilità e migrazioni
Tra quelli evidenziati nella cartina elaborata dal Watson Institute, il primo paese a subire le le conseguenze dell’attacco alle Torri Gemelle e della guerra al terrorismo islamico è stato l’Afghanistan. Nel 2001 Usa e Nato fornirono supporto all’Alleanza del Nord, ostile ai talebani. L’Alleanza conquistò Kabul e le truppe occidentali aumentarono la loro presenza per sostenere il nuovo governo, questo fino al 2021, anno in cui gli Americani e i loro alleati hanno abbandonato l’Afghanistan, lasciandolo nuovamente nelle mani del regime talebano, evento che ha messo in fuga milioni di civili.
Nel 2003 fu il turno dell’Iraq e dell’odiatissimo Saddam Hussein, accusato dagli Usa di sostenere il terrorismo islamico e di possedere armi di distruzione di massa mai trovate. Quell’anno una coalizione internazionale guidata dagli Usa invase il paese dando inizio al conflitto che si concluse con la morte del dittatore iracheno e l’insediamento di nuove autorità su delega statunitense.
Nel 2011 scoppia la guerra civile siriana, che vede lo scontro tra le milizie ribelli e le forze governative che appoggiano il governo di Bashar al-Assad. Mentre il conflitto dilaga, le milizie fondamentaliste sunnite prendono il nome di Isis ed entrano in gioco attaccando l’Esercito Libero Sirinao. Dopo numerose vittorie l’Isis nel 2014 dichiara la nascita dello Stato Islamico, così a settembre dello steso anno una coalizione internazionale guidata dagli Usa reagisce con una serie di bombardamenti in supporto del forze che si oppongono al gruppo fondamentalista, che di fatto viene messo in fuga.
Sempre nel 2011, con un attacco aereo, la Francia da il via all’intervento internazionale deciso formalmente per proteggere i civili dalla guerra scoppiata tra le forze lealiste a Gheddafi e le forze ribelli. Il risultato è l’instabilità irrisolta della Libia, che si riflette sull’intera area del Mediterraneo, poiché il paese libico è il crocevia attraverso il quale gran parte dei migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente sperano di raggiungere l’Occidente.
La gente fugge anche dalla Somalia perché il paese è ancora martoriato dalla guerra scoppiata nel 2006, quando le truppe etiopi, appoggiate dagli Stati Uniti, invasero il paese per sostenere il governo con sede a Baidoa. L’Unione delle corti islamiche dichiarò lo stato di guerra contro gli invasori. Dopo il ritiro delle truppe etiopiche avvenuto nel 2009, Sharif Sheikh Ahmed venne eletto presidente, ma il conflitto continua tuttora, alimentato dai molti gruppi islamici presenti nel paese, tra cui Al-Shabaab. La guerra civile imperversa anche nello Yemen dal 2015, dove i resti da Al-Qaeda e dell’Isis hanno trovato la possibilità di riorganizzarsi.
Infine c’è il Pakistan dove le tensioni politiche ed etnico-nazionali sono all’ordine del giorno, con l’aggiunta della presenza di molti gruppi armati fondamentalisti, specie al confine con l’Afghanistan, paese con il quale il governo di Islamabad intrattiene rapporti ambigui, divisa tra l’appoggio del nuovo regime talebano e la rivendicazione dei territori di confine.
Per tutte queste nazioni l’intervento diretto degli Usa e la dichiarazione di guerra contro i gruppi terroristici di matrice islamica hanno significato guerra e di distruzione, oltre a un’insanabile instabilità politica. Per 38 milioni di persone l’unica possibilità di salvezza è stata quella di fuggire dal proprio paese alla ricerca di una vita migliore. Un disastro umanitario che va avanti e a cui la comunità internazionale non riesce a mettere freno.
Articolo di Michele Lamonaca